In Calabria, le coste tirreniche nei pressi di Pizzo, sono il pittoresco palcoscenico
della pesca dei tonni, della “mattanza”, una tradizione carica di significati
 
Una fuga d’amore e di morte
 
di Lucia Bellassai
 
II genio di Luchino Visconti rilesse in chiave progressista la sfida di questi lavoratori immaginando il desiderio del riscatto di uno di essi da ogni dipendenza gerarchica ed economica; il film “La terra trema” si chiude amaramente con l’impossibilità di un riscatto sociale verso l’autonomia lavorativa del protagonista e tutto ciò resta come sfondo melanconico e ineluttabile, così come da sempre melanconiche e rassegnate restano le cantilene dei tonnaroti, rotte solo dalla mattanza, che è momento di violenza e tripudio di sangue e combattimento. È l’attesa, paziente, a volte quasi interminabile, che accompagna il lavoro dei tonnaroti, fermi con gli occhi che bucano il mare fino a guardare in profondità, con una lenza sottilissima che vibra al passaggio dei tonni; è l’attesa che fa da sfondo alla pesca e che induce questi uomini per forza di cose a bucare anche dentro di sé nelle ore, nei giorni in cui si attende. Così in Sicilia, dove forte resta il segno della matrice araba della mattanza; furono infatti gli Arabi che inventarono la tonnara e da essi si ereditò oltre che la tecnica anche il gergo, i canti, le tradizioni. In Calabria, le coste tirreniche, quelle di Pizzo soprattutto, da sempre sono teatro della mattanza. Presso l’azienda “Callipo”, azienda leader in Italia e in Europa nel settore della lavorazione del tonno, sono ancora vivi i ricordi di quello che è storia relativamente recente della mattanza e proprio qui attingiamo notizie e racconti, che ci dicono di come la storia della Calabria si intreccia fittamente a quella della pesca del tonno; la tradizione, documentata per certi aspetti, dice che al momento culminante della pesca assistevano i signori che potevano calare le tonnare dietro pagamento di un canone, come succedeva alla famiglia Murmura di Vibo Valentia; essi ricompensavano il rais, che offriva loro il tonno più grosso con un anello lucente, come faceva la calabrese marchesa Caterina Gagliardi.
 
Ma è anche molto più probabile che il tonno più invitante fosse offerto a San Giorgio, protettore dei tonnaroti, per il pericolo scampato durante la mattanza. Storia di padroni e di poveracci, con donne sullo sfondo chine a intrecciare reti, incapaci anche solo di sognare un destino diverso. Tutti in attesa dei tonni, che arrivavano dai fondali più profondi del Mediterraneo di primavera, chiamati i tonni di corsa, quelli più prelibati, perché giungono grassi e pronti alla stagione degli amori. Ed era proprio nell’inseguimento delle loro femmine che i tonni finivano con il trovare la morte; gli uomini, guidati dal rais, sapevano che in tali corse d’amore, i pesci seguivano e seguono ancor oggi le correnti più tiepide e proprio lì pongono le loro reti. Le fughe d’amore vengono così trasformate in fughe di morte; le analogie con alcune vicende umane sembrano ripetersi sott’acqua e di tutto ciò pare sentire il riso ironico del Caso.
 
Per ogni mattanza venivano calate in acqua tonnare sempre nuove: non era previsto recuperare una rete dalla mattanza precedente perché la violenza della pesca dell’anno passato non consentiva il riutilizzo della stessa negli anni successivi. La tonnara fissa calabrese era caratterizzata dalla rete sbarrante detta “pedale” lunga 1800 metri e da una flottiglia di barconi disposti in modo da delimitare uno specchio d’acqua rettangolare, suddiviso da una serie di reti fisse in tante concamerazioni. Queste barche, addette ai vari e specifici compiti, avevano una loro precisa nomenclatura a seconda dei compiti loro assegnati: la “caparrassu” era la barca più grande di tutte a cui si faceva accostare la rete sollevata dal fondo per la mattanza vera e propria. Una volta immerse nelle acque, restavano in superficie solo dei galleggianti e le imbarcazioni nere, nere come vuole la tradizione, dei tonnaroti. Sotto la superficie invece si snodavano la varie camere: il tonno entrava nella prima poi nella seconda e man mano le porte della prima, poi della seconda si chiudevano per non consentire all’animale una via di ritorno; le maglie erano intrecciate in modo sempre più fitto: un corridoio di camere e l’ultima, per la cui lavorazione si prevedeva che le maglie fossero fittissime, era quella da dove i tonni, affluiti in branchi, non avevano più scampo. Arrivato qui il branco, i tonnaroti stringevano in superficie la gomene dell’ultima camera, come i cordoni di un sacco e da questo momento inizia la battaglia tra gli animali e gli uomini. L’attesa si rompe ed è il momento di gareggiare con la forza di queste bestie, che, sono in grado di fiondare tali colpi di coda in grado di uccidere più uomini. Qualche tonnarota meno cauto finisce vittima degli animali che cercano scampo: man mano che dalle imbarcazioni dei tonnaroti si stringono e si tendono sempre più le gomene, man mano che la camera della morte viene sollevata in uno sforzo spasmodico, una volta affiorate le prede, su queste è una pioggia di fiocine e tutto comincia a diventare da blu e trasparente, rosso e torbido. La battaglia si protrae finché non giunge alcun segno minaccioso dai tonni morenti, trascinati sulle imbarcazioni verso la riva da dove poi venivano destinati ai mercati più floridi o agli stabilimenti di lavorazione degli stessi.
 
I costi di tale pesca divennero nel tempo così elevati che ben presto fu necessario abbandonarla. Spesso ci si metteva anche il clima che, quando si irrigidiva, non favoriva le corse d’amore dei tonni, sempre più difficili da catturare. Chi passa oggi sulle splendide coste della Calabria tirrenica non speri di vedere più nulla di tutto ciò; se è fortunato avrà modo di scorgere un altro tipo di pesca, ugualmente suggestiva: vedrà qualche imbarcazione con un albero insolitamente abitato da un uomo che scruta ogni movimento dell’acqua ed è pronto a fiondare la sua fiocina nel dorso di qualche pesce spada che passa silente sfiorando l’imbarcazione. Un’operazione fatta più che di forza e spargimento di sangue, di astuzia e finissima agilità. Delle tonnare “annegate” più nulla: arrivano, alla fine degli anni settanta, i giapponesi che decretarono la fine delle tonnare fisse, soppiantandole con una flottiglia di pescherecci molto veloci che operano con tonnare volanti, inventate dagli stessi giapponesi, la cui messa in mare richiede un esiguo equipaggio coadiuvato però da mezzi moderni e sofisticati, che permettono di individuare, seguire e circuire i branchi di tonni senza battute a vuoto. Dei rituali della preparazione che sopra abbiamo descritto non resta nulla. Sparite soprattutto le reti delle relazioni umane tra il rais e i suoi uomini, tra questi e le loro donne che, proprio come reti, avevano circoscritto un tempo e un modo di vivere fatto, più che d parole, di silenzi, di sguardi, di attese.
 
Lucia Bellassai
 
La dura disciplina della tonnara
 
Pale di fichi d’India attraverso le quali si ritagliano, come fotografie, pezzetti di mare e di cielo blu e profumi di gelsomino che fanno cedere i sensi, trionfi di colori in fiore e roccia nera, folate dense di carrubo dolce e sensuale, storie forti e appassionate che il sole di Sicilia da sempre ha scaldato e illuminato: tutto questo cerca il turista che si reca in Sicilia e non resta mai deluso. Così, arrivato alle spiagge di fronte alle quali venivano calate le tonnare, divenute luoghi per alberghi o ristoranti carichi delle tradizioni della mattanza, o sulle coste iblee, o su quelle trapanesi, davanti al mare trasparente e misterioso insieme, non farà fatica a risentire il grido del rais, il capo della tonnara, con il suo “levate”, che segnava la cattura definitiva del tonno nella camera della morte che, per ogni pescatore era camera della vita. Disciplina dura quella della tonnara: i prescelti dovevano passare cento giorni sotto le regole indiscutibili del rais, capo ineccepibile della tonnara, alla cui capacità di scrutare i fondali del mare e di conoscere i tempi dei trasferimenti dei tonni erano affidate le sorti di molte famiglie. Silenzio e concentrazione erano le doti richieste ai tonnaroti, in aggiunta ad una notevole resistenza fisica. Le donne dei prescelti erano solitamente poi coloro che durante la restante parte dell’anno si occupavano della cura delle reti, trappole mortali, la cui realizzazione era compito assai complesso, per cui l’elezione a diventare pescatore di tonno segnava il destino di tutta la famiglia. Del resto, anche il rais ha, a sua volta, il destino segnato dall’essere figlio di rais e dal generare figli che diverranno rais. Prima della pesca ci si affidava all’aldilà e a chi nell’aldilà si sentiva più vicino. Ogni tonnarota attaccava sul palo che veniva infisso nei fondali il proprio santino raccomandandosi per un buon risultato: se la pesca andava male ci si accaparrava il diritto di scaraventare in acqua il santino “fedifrago”. Così per ogni tonnarota e spesso i santini che galleggiavano in acqua erano tanti insieme ai tabù di altri tonnaroti di nazionalità diversa. Anche il rais poteva in questo caso cedere alla rabbia, proprio lui percepito come uno stratega vero, forse vissuto dai suoi un po’ come uno stregone, facilitati in questo dal sole e dalla salsedine che tutto cuoceva, anche i lineamenti dei visi, i tratti delle spalle, del dorso, delle mani. Poco spazio alla contrattazione, al compromesso: nessuna negoziazione con il capo della tonnara; tutti insieme contro la natura, che era ciò che poneva la sfida della sopravvivenza, come nei “Malavoglia” di Giovanni Verga.